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Ricerca tecnologica europea: un vaso di coccio fra illusioni dorate

Di Claudio Cozza

Per chiudere questa serie di articoli sul sovranismo tecnologico, richiamiamo i punti chiave che abbiamo tentato di far emergere:

  • Quando sentiamo parlare di sovranismo tecnologico, ciò avviene attraverso notizie giornalistiche che spesso semplificano esageratamente o cancellano il significato economico sottostante.
  • Ad esempio, se ne parla solo in termini di contrapposizioni geopolitiche (interessi USA o UE contro quelli cinesi) senza mostrare la complessità delle mutue dipendenze tra attori economici mondiali (come possono essere le grandi imprese transnazionali a base USA che però operano direttamente o, via supply chains, indirettamente in Cina).
  • Come corollario di questo secondo punto, si obliterano gli interessi economici contrastanti all’interno dei paesi o delle aree (come se l’interesse nazionale statunitense, o peggio quello ‘europeo’, fosse coincidente per tutti i lavoratori e tutti i capitalisti di quel paese, o anche per capitalisti dello stesso paese ma attivi in settori produttivi molto diversi).
  • Infine, si sottace come il sovranismo tecnologico – inteso come insieme di specifiche politiche pubbliche, industriali e commerciali – sia strettamente legato alla ricerca pubblica e ancor più a quella privata nei singoli grandi paesi.

Alla luce di ciò, è di nuovo necessario mostrare la limitatezza di recenti articoli sul tema, che hanno riguardato imprese europee e capitali cinesi. È il caso del ‘golden power’ attivato dal Governo Italiano sulle gomme Cyber della Pirelli – storica impresa milanese ormai da quasi 10 anni di proprietà di ChemChina – per impedire un “possibile trasferimento di informazioni rilevanti per la sicurezza”. Secondo gli obiettivi governativi italiani, la Cina non dovrebbe avere un ruolo nell’influenzare le scelte manageriali di Pirelli, pur detenendone la proprietà. E ciò riguarda anche tutti gli altri casi in cui, da inizio legislatura, il Governo Meloni ha applicato la norma, anche nei confronti di imprese controllanti occidentali: un intervento statalista molto forte che contrasta con gli alti proclami di liberismo e di benevola attrazione di capitali esteri. Ma che allarma soprattutto quando a poter investire sono i cinesi, verso i quali si devono fare anche dichiarazioni ‘preventive’ di uso del golden power; ben prima che di questi investimenti ci sia certezza (nel caso della sfumata acquisizione di Electrolux da parte di Midea, “tra i motivi ostativi vi sarebbero anche le possibili annunciate misure protezionistiche da parte dell’Italia compreso il ventilato ricorso da parte del ministro Luca Ciriani alla Golden Power per la salvaguardia dei 5 stabilimenti e dell’occupazione, di oltre 5 mila addetti”).

Insomma: con le chiacchiere dei politici e dei giornalisti, non si vede quanto un’area economico-tecnologica in declino (l’Europa) stia faticando per tutelarsi nella stretta fra un alleato tecnologicamente più avanzato (gli USA, di cui copia le mosse anti-cinesi) e i paesi tecnologicamente emergenti. Eppure la questione è molto semplice, come scritto nelle primissime pagine del rapporto “Mid-decade challenges to national competitiveness” (settembre 2022) dal think-tank Special Competitive Studies Project (SCSP). Ossia una fondazione privata nata nel 2021 e presieduta da Eric Schmidt (già CEO di Google), sulla falsariga del Rockfeller  Special Studies Project, fondato negli anni ’50 e allora diretto da Henry Kissinger. Kissinger che, per la cronaca, all’età di 100 anni scrive la lettera introduttiva di questo recente rapporto. Cosa si dice, già dalla prefazione?
“La competizione strategica tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese è oggi l’elemento caratterizzante della politica mondiale. L’epicentro della competizione è la ricerca della leadership e della quota di mercato dominante in una costellazione di tecnologie emergenti che saranno alla base di una società prospera, di un’economia in crescita e di strumenti di potere più affilati” (pagina 9).

Nell’intero rapporto (poco meno di 200 pagine), ad esclusione delle note, la parola Europa/europeo/UE ricorre meno di 10 volte e sempre in un’ottica di vassallaggio, come quando si propone la seguente strategia:

“Le nostre alleanze devono adottare un approccio globale alla competizione. Gli Stati Uniti dovrebbero sfruttare la loro leadership nel Quadrilatero, nell’AUKUS e nel Consiglio per il commercio e la tecnologia USA-UE e riunire gli alleati delle Americhe, dell’Europa e dell’Indo-Pacifico in un partenariato globale” (pagina 102).

Se questa è la situazione europea, quella italiana è ovviamente ancora più limitata. Politici ed osservatori geopolitici toccano anche le giuste corde, nell’indicare il ritardo e la dipendenza nei confronti della Cina: “pochi conoscono Quectel, Fibocom o altri produttori cinesi di moduli cellulari IoT, anche se rappresentano una minaccia ben più grave per i Paesi democratici occidentali, liberi e aperti alle tecnologie. Con i moduli cellulari, la Cina sta utilizzando la stessa strategia delle telecomunicazioni 5G e di Huawei/ZTE. Il Partito Comunista Cinese (PCC) vuole stabilire un monopolio globale di questi componenti vitali attraverso aziende poco conosciute, utilizzando sovvenzioni, accesso a finanziamenti a basso costo, tecnologia condivisa e altro supporto statale. Le aziende cinesi già detengono il 64% del mercato globale delle vendite e il 75% per la connettività. In America del Nord ed in Europa le loro quote di mercato sono arrivate al 30%, mentre in India hanno raggiunto l’86%”. In altre parole, l’internazionalizzazione della ricerca – di cui avevamo parlato in un precedente articolo – non riguarderebbe più soltanto la presenza di filiali di ricerca all’estero (che si possono anche bloccare o chiudere, per decisione governativa) ma lo stesso utilizzo di beni intermedi o finali. I sensori delle gomme Pirelli che veicolano dati sensibili così come un qualsiasi smartphone che quotidianamente utilizziamo. Una ‘globalizzazione’ che è molto più difficile da bloccare per decreto…

Gli osservatori geopolitici alla moda, però, dimenticano però tre considerazioni:

  • Il dominio tecnologico è intrinseco allo sviluppo capitalistico e s’intreccia con le decisioni politiche, da secoli: perché parlare della Cina di oggi e non delle politiche protezioniste e coloniali inglesi del ‘600 che sono alla base della prima rivoluzione industriale? Oppure dell’apparato industriale-militare statunitense del ‘900? Chi domina tecnologicamente, cioè economicamente, fa di tutto per usare questo dominio in politica e quindi accrescerlo ulteriormente. Nel sistema capitalistico, questo è il modo di operare, con buona pace degli illusi della libera e leale concorrenza.
  • La contrapposizione e la necessità di proteggersi con il ‘golden power’ non sono a senso unico: il Partito Comunista Cinese negli ultimi anni ha sentito la necessità di usarlo nei confronti di grandi gruppi cinesi privati, di cui alcuni anche quotati in borsa al NASDAQ statunitense (come Weibo).

Il dominio cinese e quello statunitense, così come il ‘non dominio’ tecnologico italiano ed europeo, emergono da tutte le statistiche, ad esempio quelle sulle pubblicazioni in tecnologie strategiche. Laddove però i paesi avanzati e ancor più quelli arretrati mostrano una presenza massiccia di lavori scientifici da parte di istituzioni pubbliche ed università. Insomma della ricerca pubblica, che prova a salvare il salvabile: se da tanti viene dimenticata, noi vorremmo ripartire da qui!

Foto di SEBASTIEN MARTY da Pixabay

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