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‘Potere dorato’: per chi suona la campana?

di Claudio Cozza

Come detto nel precedente articolo sul tema del sovranismo tecnologico, è sempre necessario districare il groviglio degli aspetti economici e (geo)politici, per vederne la reale reciproca azione. Lo possiamo fare richiamando molti esempi recenti, nei quali emerge come cruciale il ruolo dell’intervento statale – magari con lo strumento del cosiddetto golden power, un ‘potere dorato’ – in questioni economiche dal risvolto geopolitico.

Risulta facile vederlo, negli attuali tempi di guerra, quando uno stato impedisce l’investimento sul proprio territorio da parte di un capitale estero appartenente ad un ‘blocco politico’ contrapposto. È stato il caso degli investimenti 5G della cinese Huawei in USA al tempo di Trump. Sembra esserlo in questi giorni nel caso della vendita della raffineria siciliana di Priolo, già di proprietà del colosso petrolifero russo Lukoil, alla società cipriota GOI che sarebbe collegata alla società di materie prime Trafigura, multinazionale francese con sede a Singapore e partner dell’altro gigante russo del settore petrolifero Rosneft. Per paura che questa transazione sia solo una cessione fittizia, il governo italiano “ha dichiarato l’impianto di interesse strategico nazionale e quindi sottoposto alla normativa sul golden power. Tale preoccupazione è stata sollevata dai diplomatici statunitensi e ha quindi mostrato come l’interesse nazionale italiano sia più che altro quello del ‘blocco occidentale’: da un lato ci sarebbero i ‘buoni’ e dall’altro i ‘cattivi’. Il golden power servirebbe quindi agli ‘stati dei buoni’ per limitare le virtù del mercato, qualora emerga il rischio che ad operare sul mercato sono ‘gli stati cattivi’.

Una doverosa precisazione. Tale crescente ricorso al golden power è più annunciato che realizzato: è stato calcolato che nel solo 2022 le “notifiche di operazioni soggette al golden power” sono state pari circa alla metà di quanto avvenuto in tutti gli 8 anni precedenti. E nel solo periodo del Governo Draghi “sono state effettuate 934 notifiche, quasi il 60% del totale dal 2014”. Di queste 934 notifiche, però, i casi di veto (inteso come divieto di acquisire imprese italiane o rami d’azienda da parte di soggetti esteri) sono stati appena una decina: a fronte di “un indubbio aumento, in termini assoluti, dei decreti di esercizio di poteri speciali, altrettanto non può dirsi in termini relativi, guardando cioè al rapporto tra gli stessi e le notifiche pervenute”. Insomma: il Governo Italiano interviene per bloccare investimenti esteri in settori strategici, ma lo fa con i piedi di piombo.

Se passiamo però ad altri esempi recenti, la spiegazione geopolitica non regge più. Investimenti digitali strategici come quelli sulle fabbriche di semiconduttori sono in prima battuta espressione della cosiddetta “chip war” fra USA e Cina; ma hanno poi un forte impatto economico sul nostro continente, con “la preoccupazione diffusa in Europa per i maxi-sussidi da centinaia di miliardi di dollari offerti dalla Casa Bianca di Joe Biden all’industria più avanzata negli Stati Uniti. Ce n’è abbastanza da creare una massiccia migrazione degli investimenti manifatturieri da questa sponda dell’Atlantico all’altra”. Ancor di più: dietro alle decisioni della multinazionale nordamericana Intel se e dove fare un nuovo investimento nel settore dei microchip fra Germania, Francia e Italia, ecco spuntare un’ulteriore contrapposizione tra i differenti  stati-nazione della UE. Ciascuno contro l’altro per accaparrarsi l’investimento, sebbene sempre con i soldi di tutti gli europei, visto che “il Chips Act europeo liberalizza gli aiuti di stato e permette a Italia, Francia e Germania di finanziare ciascuna circa il 40% dell’investimento di Intel (che senza questi sussidi sarebbe rimasta negli Stati Uniti)”.

Non solo: la UE ha da poco annunciato un Green Deal Industrial Plan per rispondere appunto agli incentivi della Casa Bianca, il cosiddetto Inflation Reduction Act. Aiuti di stato (USA) contro aiuti di sovra-stato (UE), con questi ultimi che potrebbero portare ad un vero e proprio ‘Fondo di Sovranità europeo’, ossia uno strumento finanziario comune per consentire agli europei di recuperare terreno sulle tecnologie oggi all’avanguardia. Un qualcosa di così importante da portare Ursula von der Leyen addirittura a parafrasare il vecchio motto di John Donne (“nessun uomo è un’isola”): “il concetto del fondo di sovranità è che abbiamo bisogno di una risposta strutturale europea su come affrontare e come supportare queste tecnologie chiave. Dovremmo sempre tenere presente che nessun paese, nessuno stato membro dell’Unione Europea è un’isola, nemmeno uno”.

E però questo piano strategico viene, al momento, promosso come un allentamento temporaneo della rigida normativa europea sugli aiuti di stato. Con l’effetto di favorire le imprese di quei paesi che possono permettersi – dato il loro basso debito pubblico – di concedere maggiori aiuti di stato alle proprie imprese: dei 672 miliardi di euro utilizzabili (cifra che corrisponde a poco più di un terzo del PIL italiano), il “53 per cento è stato notificato dalla Germania, mentre la quota della Francia è stata del 24 per cento. L’Italia, a causa dei suoi vincoli all’indebitamento, si è limitata a chiedere l’approvazione per un ammontare di sussidi pari a circa il 7 per cento del totale”. Insomma quasi 85% in soli tre (grandi) paesi industriali: alla faccia di John Donne! E anche del governo Meloni, che infatti sul tema ripete “che deve essere garantita parità di condizioni tra gli stati attraverso un fondo sovrano europeo per sostenere gli investimenti e proteggere la sovranità industriale e tecnologica del continente”. E torniamo così al punto di partenza: sovranismo e unità nazionale/europea. O meglio: a parole, unità e sovranismo. Nella pratica, tutti contro tutti: occidente vs. oriente, USA vs. Europa, Francia e Germania vs. Italia. Ci viene allora un dubbio: ma non sarà proprio la lettura geopolitica a rendere intricata la questione? Non sarebbe più logico ragionare a partire dagli interessi dei grandi centri privati di accumulazione, dei grandi capitali con ingenti investimenti tecnologici, indipendentemente dalla loro base geografica di partenza? Insomma dagli interessi di quei “fratelli nemici” (per dirla marxianamente) che hanno sì tutti lo stesso interesse di profitto ma possono soddisfarlo solo lottando tra di loro? E se le politiche statali non facessero il millantato ‘interesse pubblico’ ma quello di alcuni privati? Ne tratteremo nelle prossime puntate.

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