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La moda giornalistica del sovranismo tecnologico

Di Claudio Cozza

Dopo una campagna elettorale in cui si sono scontrate visioni politiche più o meno sovraniste, non è strano trovare in rete ancora molti riferimenti alla tutela della “sovranità” in termini economici. Se di attualità è la tematica della “sovranità energetica” dell’Italia e degli altri paesi europei, non meno cruciale è il discorso sulla “sovranità tecnologica”, cui a volte ci si riferisce come “sovranità digitale”.

In un articolo dell’11 agosto 2022 sul Sole24Ore (“Le tre strade maestre sulle quali è in gioco la sovranità digitale”), il presidente di Di.Gi. Academy, Alessandro Curioni, sintetizza molto bene il dominio delle grandi imprese digitali statunitensi: “Microsoft, Google e Amazon controllano il 64% del mercato cloud infrastrutturale. L’azienda fondata da Bill Gates da sola ha il pressoché completo monopolio dei sistemi operativi per server e pc”; “il 91% dei sistemi operativi installati su smartphone è iOS (Apple) o Android (Google)”; e inoltre Microsoft, Apple e Google dominano con l’88% e il 92% rispettivamente i mercati dei browser e della posta elettronica, nonché quello dei social, unitamente a Meta (Facebook, Instagram, Whatsapp). Infine, il dominio non esiste solo sul piano del software ma anche in quello dell’hardware dove però accanto ai colossi statunitensi (Intel, AMD, Qualcomm) appaiono anche quelli asiatici (Samsung, Huawei, ZTE). Questo dominio tecnologico, come ricordato nell’articolo, è molto pervasivo se, per esempio, nella recente gara per realizzare il cloud nazionale della PA italiana “i contendenti erano tutti europei (Fastweb e Aruba da una parte, Leonardo, TIM, Sogei e CDP dall’altra), ma le tecnologie messe in campo erano quelle di Amazon, Microsoft, Google e Oracle”.

Ancorché corretta, questa descrizione dei principali attori della tecnologia digitale globale corre il rischio di essere alquanto superficiale: da un lato, non viene spiegato quale sia (stato) il meccanismo che ha consentito a questi giganti di raggiungere tale posizione; dall’altro, si offrono soluzioni politiche e geopolitiche che, come anticipato, vanno bene per una campagna elettorale ma non per un’analisi scientifica. Ad esempio, nell’articolo si sottolinea la necessità per l’Unione Europea di garantirsi una “sovranità digitale” e si suggeriscono tre strade. Le prime due, però, a detta dell’articolista non praticabili nemmeno nel lungo periodo: lo sviluppo della tecnologia e la disponibilità di competenze. Viene suggerito nell’articolo, pertanto, di praticare velocemente la terza strada: il controllo delle informazioni. Un richiamo, cioè, a praticare il “controllo diretto sui dati e informazioni”, accelerando il processo già in atto di direttive e regolamenti europei (Direttiva NIS, Cybersecurity Act, Digital Service Act, Data Governance Act e Artificial Intelligence Act) volti a frenare il dominio degli attori privati non europei. Un controllo che sarebbe “la grande scommessa europea per conservare la sua sovranità e limitare la colonizzazione digitale”.

Nell’inaugurare questa sezione sulla “sovranità tecnologica” del nostro sito, vorremmo innanzitutto evidenziare alcuni presupposti impliciti in questo tipo di articoli, da approfondire poi separatamente, uno alla volta:

  1. Gli articoli divulgativi e la reportistica mescolano spesso gli aspetti economici e quelli (geo)politici. Questi sono ovviamente intrecciati fra loro, ma compito di un buon divulgatore dovrebbe essere quello di saperli spiegare separatamente, per poi evidenziare COME s’intreccino fra di loro. In questo ambito, un punto chiave è il rapporto fra iniziativa privata e poteri pubblici: oggi è alla moda parlare di “golden power”, ossia poteri speciali del governo che possano limitare l’iniziativa privata estera in attività strategiche nazionali. Sulla falsariga di quanto fatto da Trump che nel 2019 vietò ad imprese statunitensi l’acquisto di prodotti della cinese Huawei. Alle definizioni puramente ideologiche dei politici (ad esempio: “golden power significa difesa degli interessi nazionali che soprattutto in alcuni ambiti, quali la difesa, le telecomunicazioni, le infrastrutture pretendono che il Paese sia sovrano”, come dichiarato ad agosto 2022 dal sottosegretario alla Difesa Mulè a Radio 24) vanno necessariamente affiancate spiegazioni economiche. Come quella del professor Fabrizio Onida sul Sole24Ore del 20 agosto: “l’autonomia strategica dovrebbe innanzitutto mirare a rafforzare gli investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo (tema non molto presente nei verbosi programmi dei partiti in vista del voto del 25 settembre), valorizzando le nostre riconosciute competenze in campo tecnico-scientifico”.
  2. Al netto dei giudizi di valore con cui prosegue il suo articolo, Onida spiega implicitamente quale sia stata la strategia vincente dei suddetti big player: investimenti tecnologici pluri-decennali. Ma se quelli statunitensi hanno effettivamente una lunga storia, proveniente perlomeno dal periodo delle guerre mondiali, quelli di altri paesi sono molto più recenti. Con il caso limite della Cina, le cui imprese nel 2004 quasi non apparivano nelle classifiche mondiali di investimenti in R&S (prima edizione dello EU R&D Investment Scoreboard, pubblicato annualmente dalla Commissione Europea), e che invece oggi sono le più numerose dopo quelle statunitensi: fra le prime 2.500 imprese mondiali per investimenti globali in R&S nell’anno 2020, 779 hanno base negli USA, 597 in Cina, mentre al terzo posto c’è il Giappone con “solamente” 293 imprese, e giù a scendere. In termini economici, gli investimenti di queste imprese statunitensi sono pari a 343 miliardi di euro, quelli delle cinesi pari a 141 miliardi di euro mentre, per dare un’idea, il controvalore delle italiane è pari solo a 5 miliardi di euro. Sebbene anche queste siano una mera descrizione, rispetto a quelle di Curioni sono cifre che raccontano da dove provenga oggi il “potere tecnologico”, ossia il suo punto di partenza, e non si limitano a raccontare il solo punto di arrivo, ossia la vuotezza delle “quote di mercato”.
  3. Rispetto all’articolo di Curioni, quello di Onida evidenzia inoltre il ruolo degli investimenti pubblici. Una lunga letteratura economica ha mostrato quanto siano interconnesse le scelte strategiche pubbliche con quelle private. Se ciò è vero perlomeno dalla fine dell’800 (come ci ricorda per primo John Atkinson Hobson nel suo saggio “Imperialismo” del 1902), ai fini della sovranità tecnologica non si possono non ricordare gli interventi federali statunitensi in tempo di guerra fredda (a partire dal progetto ARPANET della DARPA nel secondo dopoguerra, progetto da cui si può dire semplificando che derivi internet, e quindi implicitamente l’esistenza di tutti gli attori economici digitali odierni). Ma non si deve nemmeno dimenticare il ruolo di altri governi asiatici (quelli di Giappone e Corea del Sud, in primis) nella rincorsa tecnologica attuata grazie a politiche economiche per la scienza, la ricerca e l’innovazione.
  4. In tempo di elezioni, allora, dobbiamo concludere semplicisticamente che “serve più stato in economia”? Per noi italiani, terra di imprenditori liberisti che chiedono continuamente bonus statali per tenere in piedi le loro attività private, questo è un terreno minato. Il meccanismo del golden power potrebbe rappresentare un’ulteriore distorsione attraverso cui alcuni politici avvantaggiano la loro lobby di riferimento, a danno dell’interesse pubblico. Non a caso, l’articolo da cui siamo partiti ha la seguente premessa: l’espressione tipica della sovranità “è in termini di territorio, definendo dei confini fisici entro i quali un soggetto esercita un potere pressoché assoluto. Di conseguenza essa ha molto a che vedere con l’indipendenza, un concetto che negli ultimi trent’anni è stato scardinato da un lato dal fenomeno della globalizzazione, dall’altro dall’avvento delle società dell’informazione”. Un approccio del genere dimentica di dire che la concorrenza sul mercato mondiale e la tecnologia erano i fattori chiave per spiegare l’economia già due secoli fa, negli studi degli economisti attenti al funzionamento della produzione e non solo alle “quote di mercato” (Smith, 1776; Ricardo, 1821; Marx, 1867). Se la chiave è la tecnologia mondiale, di quale “indipendenza” stiamo parlando?
  5. Per chiudere, dietro le lamentazioni dei commentatori spesso si nasconde la necessità di determinati attori economici ancora nazionali (prima e contro il loro essere europei) di ottenere supporto dal governo in carica. Si tratta cioè di concorrenza capitalistica mondiale, camuffata da “interessi strategici nazionali” che, però, effettivamente esistono e con essa sono immischiati. Per questo, come si diceva all’inizio, il nostro scopo è quello di prendere questi elementi (economia e geopolitica), distinguerli analiticamente uno alla volta, e poi rimetterli insieme, visto che insieme stanno. Come si può evincere da un altro articolo del Sole 24 Ore, addirittura del giugno 2021, un’intervista alla ad del gruppo Elettronica, Domitilla Benigni, “la sovranità tecnologica non è un concetto astratto o ideologico. Ma è pratica quotidiana dei mercati, delle istituzioni della politica e dei rapporti fra le imprese”. Questa è la prospettiva di imprese nazionali che quotidianamente si confrontano “con uno scenario globale in cui gli Stati Uniti e la Cina sono predominanti. Gli Stati Uniti, nel nostro campo, sono avanti tre anni: il combinato disposto fra esercito e ricerca pubblica, commesse del governo e università private rimane straordinario. Il controllo cinese del 60% delle terre rare, i diciassette elementi della tavola periodica essenziali nella manifattura delle tecnologie, ha acceso una opzione della Cina sulle catene globali del valore e sulle catene di fornitura con cui, ogni giorno, tutti si confrontano”. Ruolo chiave è, secondo l’intervistata, quello giocato dall’Unione Europea e dalle sue “regole”. Si giunge allora all’ultimo punto debole di chi chiede di accelerare con le direttive e i regolamenti europei: di contro ai grandi capitali a base USA o Cina, non si parla mai di esistenza di “imprese europee”, ossia di formazione di un capitale a base europea. Il nanismo produttivo, che per decenni ha caratterizzato l’economia del Vecchio Continente, è ormai nanismo ideologico: si chiede all’UE di stabilire regole per attori che rimangono formalmente solo nazionali. E ciò a dispetto del fatto che tutti i grandi investitori privati – quelli del suddetto R&D Scoreboard – siano imprese transnazionali, operanti cioè trasversalmente nel mondo, con un legame sempre più debole con il paese di prima provenienza. Al quale si rimane legati soltanto nella misura in cui se ne possano influenzare le scelte di politica economica, per mera convenienza privata truccata da “interesse nazionale”, del quale sono piene le tribune politiche elettorali.

Di tutti questi punti, effettivamente confusi e intrecciati fra loro, si parlerà separatamente nei prossimi articoli di questa sezione tematica.

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