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Politiche industriali verdi: qualche riflessione

Di Andrea Morrison

Il 20 marzo è stato presentato il sesto rapporto IPCC sul clima. I toni, come era logico aspettarsi, sono allarmanti. Quanto abbiamo fatto fino ad oggi per combattere il cambiamento climatico non è abbastanza. La temperatura media della terra è aumentata negli ultimi decenni di 1,1 °C (con punte di 1,59°C sulle superfici emerse). A questo ritmo non riusciremo a contenerne l’aumento entro il limite dei 1,5°C, come era richiesto dagli accordi di Parigi, e molto probabilmente si supereranno i 2 °C. Le conseguenze di un tale aumento sono facilmente prevedibili e sono state largamente annunciate dagli scienziati: l’aumento delle inondazioni ed il processo di desertificazione, già in atto, si accentueranno, causando siccità e carestie con una frequenza ed intensità ben maggiore rispetto a quanto già osservato; tutto ciò spingerà masse crescenti della popolazione mondiale a cercare rifugio in altri paesi. Le migrazioni climatiche coinvolgeranno un numero sempre crescente di abitanti del nostro pianeta. Queste previsioni non sono futuribili, si stanno già manifestando, anche in Europa ed in Italia. 

Benché dipinga scenari apocalittici, il rapporto IPCC sottolinea che il peggio si può ancora evitare, e che sappiamo esattamente in che direzione andare e con quali strumenti intervenire. Abbiamo le conoscenze tecnologiche a portata di mano per affrontare queste sfide. Questa è una buona notizia, e dovrebbe darci speranza e soprattutto motivare il decisore politico ad agire con rapidità, decisione e coerenza. Alcuni recenti segnali però suggeriscono il contrario e lasciano presagire il peggio.

Il 14 febbraio 2023 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che metterà al bando i motori endotermici. Pochi giorni dopo diversi governi, con l’ltalia in prima fila insieme alla Germania, hanno di fatto congelato questa decisione1. Ricordiamo che le emissioni prodotte dal settore dei trasporti causano circa il 40% di tutti i gas serra. Queste emissioni si concentrano principalmente nelle aree urbane, quelle più densamente popolate, esponendo, secondo quanto indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa il 90% della popolazione in paesi come l’Italia a vivere in ambienti altamente inquinati. Il bando dei motori a combustione interna è solo un tassello per raggiungere gli obiettivi previsti dal Green Deal Europeo. Un piano ambizioso che tutti i paesi Europei si sono impegnati ad adottare a partire dal 2019.

La coalizione di governi che si oppongono a questa decisione, con vari distinguo, è accomunata da un unico principio di fondo, la difesa dell’industria nazionale. Le preoccupazioni dei governi sono legittime, soprattutto per le ricadute occupazionali che potrebbero discendere da questa decisione, ma sono altresì tardive e di retroguardia.

Il recente dibattito accademico sulle politiche industriali verdi, che ha largamente ispirato il disegno del Green Deal europeo, fornisce utili spunti di riflessione per orientare il decisore politico e più in generale per comprendere la fallacia della posizione di questi governi, e segnatamente dell’Italia2.

Crescita economica, sviluppo industriale e ambiente sono spesso presentati come incompatibili. E’ infatti la nostra civiltà industriale la causa principale del cambiamento climatico in atto. Come conciliare questi obiettivi? Da tempo la lotta ai cambiamenti climatici passa per una doppia sfida: costruire un modello che sia socialmente ed ambientalmente sostenibile ed al contempo garantire lo sviluppo economico (ed industriale). Benché il dibattito sia aperto su quale sistema economico possa raccogliere questa sfida nel lungo periodo, l’obiettivo nell’immediato è come affrontare questa contraddizione. Un obiettivo minimo, ma fondamentale, è orientare la trasformazione delle nostre economie verso produzioni, tecnologie, sistemi energetici, di trasporto ed agro-industriali che siano eco-compatibili. A tal scopo, le misure necessarie per attuare una transizione verde dell’economia non vanno interpretate come un ostacolo ed un costo per le imprese ed i cittadini, ma al contrario come una opportunità di sviluppo ed occupazione. Diversamente dal passato, una politica industriale verde necessariamente segna il perimetro entro cui le imprese devono muoversi, in altre parole indica chiaramente la direzione da seguire3. Al contempo, e diversamente dal passato, una politica industriale verde deve anche indicare quali produzioni e tecnologie abbandonare per poter tutelare l’ambiente. Questo spiega e giustifica la decisione del parlamento europeo di indicare una data ultima alla vendita dei motori endotermici.

I costi della riconversione al nuovo modello di sviluppo saranno maggiori per quei paesi che hanno un tessuto produttivo fortemente legato alla produzione di motori endotermici, e che al contempo hanno solo timidamente iniziato un processo di riconversione verde dell’industria automobilistica e del suo indotto. Questo chiarisce perché alcuni paesi possano avere delle remore, ma non giustifica tuttavia la messa in discussione delle scelte fatte in sede europea. Le ragioni sono di almeno due tipi, e rispondono alle stesse preoccupazioni che hanno ispirato la levata di scudi dei governi, ma portano a conclusioni diametralmente opposte a quelle proposte da questi stati.

Primo, la politica industriale, ed in particolare chi la adotta, ha il compito di anticipare i cambiamenti di lungo periodo delle tecnologie e dei mercati ed indirizzare il sistema produttivo verso scelte che siano coerenti con questi cambiamenti. Incentivi e politiche industriali dovrebbero quindi essere progettate per accelerare il cambiamento, e non per mantenere l’esistente. In quest’ottica, gli aspetti ambientali non rappresentano più una componente aggiuntiva, un vincolo od un limite, sono invece parte integrante delle politiche industriali, ed al contempo delle strategie di impresa. Se questo è lo scenario in cui operare, allora, rimanere legati a produzioni e tecnologie inquinanti non aiuterebbe, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni politici nostrani, la competitività delle imprese nazionali, ma al contrario fornirebbe incentivi dannosi alle imprese e le condurrebbe in un vicolo cieco

Secondo, la transizione produrrà inevitabilmente delle ricadute negative sul sistema produttivo, ma rimandarla non le ridurrebbe, anzi ci sono buone ragioni per credere che le aumenterebbe a dismisura. Da una parte perché rimandando l’adozione di misure di contrasto al cambiamento climatico, aumenterebbe il rischio di effetti ancora più devastanti. Conosciamo alcuni scenari, ma la realtà dei fatti potrebbe di gran lunga superare i nostri peggiori incubi. Dall’altra, perché rimandando la transizione verso tecnologie pulite nel settore dei trasporti, e dando segnali ambigui alle imprese, aumenterebbe il divario con quei paesi (ad esempio la Cina) che hanno già un vantaggio in alcune di queste tecnologie. Colmare quel divario sarà domani molto più costoso, se non impossibile, di quanto non lo sia oggi.

NOTE:

1 La messa al bando dei motori endotermici è stata finalmente approvata il 28 marzo dopo che la Commissione, su richiesta della Germania, ha lasciato aperta la possibilità di prorogarne la produzione solo se alimentati da combustibili non inquinanti, al momento si tratterebbe dei combustibili “e-fuels”. 

2 Altenburg, T., & Rodrik, D. (2017). Green industrial policy: Accelerating structural change towards wealthy green economies. Green Industrial Policy.

3 Mazzucato, M. (2018). Mission-oriented innovation policies: challenges and opportunities. Industrial and corporate change, 27(5), 803-815.

Foto di AndreasAux da Pixabay

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