di Claudio Morrison, Middlesex University Business School
Il settore della formazione e ricerca universitaria britannico, così come il resto del paese, è in crisi. Dal Novembre 2022, il sindacato docenti UCU (University College Union), insieme ad altre cinque sigle, ha aperto una vertenza sindacale senza precedenti con le rappresentanze padronali UCEA (University and Colleges Employer’s Union). Lo scontro avviene nel contesto di una crisi cumulativa che ha visto l’impennata inflattiva post-sanzioni alla Russia aggiungersi agli effetti della pandemia, della Brexit e della pluridecennale austerità imposta dai governi conservatori.
I nodi della vertenza, la gravità dello scontro e la difficoltà a risolverla misurano gli squilibri di un settore cresciuto in fatturato e addetti a scapito di precarietà, mercificazione e rampanti disuguaglianze.
L’ambiziosa campagna sindacale punta su quattro obiettivi: recupero del potere d’acquisto dei salari, crollato del 20% dal 2008, ma anche una drastica riduzione della precarietà, delle disuguaglianze di genere ed etnia, e degli eccessivi carichi di lavoro. A ciò si aggiunge, per 67 delle 145 università coinvolte, il conflitto sui rendimenti del fondo pensioni integrative di settore.
In dettaglio, nel decennio pre-covid il personale docente cresce del 30%, ma la figura tipica del lecturer a tempo pieno con compiti di ricerca e insegnamento declina al minimo storico del 44% a favore di ricercatori e insegnanti ‘semplici’ spesso assunti con contratti a termine, a zero ore (cioè senza essere pagati) o a tempo parziale. Ben il 41% di tali insegnanti è assunta con il famigerato HPL (hourly-paid lecturer) pagati a ore senza indennità o garanzie di orari e carriera. Il 68% dei ricercatori è invece assunto a termine. La crescita di queste figure rappresenta un cambiamento strutturale non solo nella distribuzione delle risorse ma del potere gestionale a favore delle gerarchie manageriali interne. La prevalenza di categorie protette tra queste figure solleva anche il problema delle pari opportunità come definito dalla legislazione anti-discriminazione che copre genere, etnia e disabilità. Infine c’è il punto dolente del superlavoro che ha generato un crollo della salute mentale: l’influente Times Higher Education riporta almeno un 20% del personale affetto da depressione o ansia, stime sindacali parlano del 50%, altri studi arrivano al 70% di affetti da stress.
La vertenza si trascina da mesi senza risultati di rilievo malgrado intere settimane di sciopero seguite, in Aprile 2023, da un sofferto e combattuto blocco degli scrutini. La causa principale di questo impasse è il rifiuto della controparte padronale di contrattare qualsiasi aumento salariale annuo oltre il 2-3% malgrado l’inflazione a due cifre. Unica nota positiva è l’accordo sulle pensioni mentre sugli altri temi la sinistra UCU giudica di poco conto le intese di principio raggiunte.
Per capire meglio questi sviluppi bisogna considerare lo stato delle relazioni industriali nel paese e la struttura interna del settore. La Gran Bretagna assieme al blocco anglosassone si distingue tra i paesi OCSE per gli irrisori livelli di protezione del lavoro, l’assenza di dialogo sociale ed una legislazione ultra permissiva per l’impresa quanto repressiva nei confronti del lavoro. Di fatto il sindacato è un’entità marginale, altamente frammentata in sigle corporative, che sopravvive prevalentemente nel pubblico. La contrattazione collettiva copre il 61% del pubblico ma solo il 15% nel privato. Si tratta tra l’altro di accordi quadro cui le singole imprese possono deviare con pochi rischi. Per risparmiare sui contributi pensionistici ai lavoratori, ad esempio, un’università può sostituire il fondo pensione con un’assicurazione privata per il personale non docente, o introdurre la sottocategoria fuori contratto del associate lecturer, o ancora piani di lavoro e controllo della performance individuale mutuati da consulenti privati, tutto in barba agli obblighi di informazione e consultazione della controparte. L’esercizio del diritto di sciopero invece richiede procedure proibitive incluso un referendum tra i tesserati, con maggioranze rafforzate nel settore pubblico, preavvisi anticipati e durate brevi. Il referendum può essere nazionale o per singole unità, nel secondo caso partecipa alla vertenza solo chi passa il quorum.
Quanto alla struttura del settore, c’è da capire che le università sono a tutti gli effetti enti privati e come tali altamente differenziate tra loro per governance e condizioni di impiego. Si passa dalle universita’ storiche di prestigio come le cosiddette Russell Group, la loro lobby di rappresentanza, alle “city” e “new universities”, costituite rispettivamente in epoca vittoriana e negli anni sessanta, fino agli ex politecnici o “post-92 universities”. Queste ultime sono escluse dal fondo pensione universitario; soffrono per via della mancanza di sponsor; molte sono in deficit, aumentando il potere di ricatto manageriale sul personale. Difatti, tutto il personale è dipendente della singola università, con condizioni contrattuali che variano per ciascun istituto. Per esempio l’orario contrattuale varia da 35 a 37 ore settimanali e il salario base può oscillare di un intero livello. La governance poi è in mano a consigli di amministrazione esterni e vice-rettori plenipotenziari che presiedono gerarchie manageriali di stampo privatistico.
Solo nelle università storiche l’elevato status di docenti e studenti di buona borghesia hanno almeno finora bilanciato il sistema così da beneficiare dell’assenza di burocrazie centrali. Non a caso qui i livelli di conflitto e militanza sono significativi. Il finanziamento statale è indiretto – tramite garanzie sui prestiti d’onore agli studenti che coprono le spese per l’insegnamento e la valutazione nazionale per la ricerca.
Il governo rifiuta la partecipazione diretta alla contrattazione pur richiedendo moderazione salariale. Eppure la UCU stima che il settore nel 2021-22 abbia raggiunto ben £44.6 miliardi di fatturato, di cui £23.5 da tasse universitarie, un surplus di £2.6 e riserve per £19.6, e il conto personale non superi il 51% del fatturato. Non meno importante, le università sono costrette a competere per studenti e fondi di ricerca pubblici e privati. Persino le borse di dottorato sono gestite da consorzi regionali esclusivi.
Come si traduce questo quadro generale sulla vertenza o sul clima nei dipartimenti? Il sindacato vanta un successo di partenza, aver oltrepassato la soglia di due ballottaggi nazionali necessari per la proclamazione dello sciopero, grazie ai voti delle università storiche mobilitate da anni a difendere le proprie pensioni e vertenze locali contro licenziamenti di massa. UCEA, forte del sostegno governativo e del sedimentato anti-sindacalismo tra l’opinione pubblica ed i maggiori partiti, Labour incluso, ha ignorato gli scioperi e opera alacremente per contrastare il blocco. Una lettera al quotidiano Guardian e numerosi blog denunciano pratiche scandalose di correzione in massa di compiti da parte di colleghi precettati o addirittura da agenzie esterne, modalità legalizzata dal governo nel luglio 2022, ma appena condannata dall’Alta Corte di giustizia. Molti studenti denunciano anche il rilascio di lauree con voti mancanti. In alcune istituzioni si applica la decurtazione completa del salario, anch’essa legale. Dove a scioperare sono in pochi, si registrano invece bullismo e minacce per rimettere in riga gli scioperanti. Rapporti di forza divergenti sul campo si riflettono in divisioni nel sindacato con conflitti tra la leadership e consiglio nazionale dei delegati sulla strategia che ha visto alternarsi richieste di scioperi ad oltranza, come il boicottaggio voluto dalla sinistra interna, a sospensioni improvvise volute da una leadership più attenta alle difficoltà interne ma senza sponde nella controparte. Per ora, partecipazione di massa e solidarietà degli studenti in alcune università d’élite, come Cambridge ed Edimburgo, insieme al recente cedimento del governo sugli aumenti salariali nel pubblico impiego, hanno riportato il management al tavolo delle trattative.
Comunque si concluda, la vertenza lascia aperte le questioni di fondo: le profonde disuguaglianze tra università e categorie che la gestione privatistica e concorrenziale di formazione e ricerca riproducono e rafforzano. Una via d’uscita con il ritorno al finanziamento pubblico non sembra tuttavia nei piani di un Labour appiattito su una linea continuista di contenimento della spesa pubblica in vista dell’agognato ritorno al governo.
Foto di Dariusz Sankowski da Pixabay