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Le università italiane e la qualità dei loro dottori di ricerca

di Lorenzo Zirulia

Le classifiche delle università costituiscono oramai un vero e proprio genere letterario, con i suoi best-seller internazionali, come l’Academic Ranking of World Universities, e campioni locali, come la classifica Censis per l’Italia. Nei contesti internazionali, le istituzioni universitarie italiane ottengono spesso valutazioni ritenute poco lusinghiere, che mettono in discussione il sistema della ricerca pubblica del nostro Paese, di cui le università costituiscono una parte preponderante. 

Ma davvero queste classifiche riflettono la qualità della formazione, e della ricerca, offerta dalle università italiane? In un recente articolo pubblicato su Nature, Caterina La Porta e Stefano Zapperi dell’Università degli Studi di Milano suggeriscono una risposta negativa a questa domanda. Il dato di partenza su cui si basa l’analisi dei due autori è relativo ai docenti assunti dalle università statunitensi con posizioni tenure-track che hanno ottenuto il titolo di dottorato nel nostro Paese. Il dato è relativo a tutte le discipline nel periodo 2011-2020. 

Il primo risultato interessante riguarda il numero assoluto di coloro che, formatisi in Italia, hanno trovato un posto di lavoro nel sistema universitario statunitense, indubbiamente il migliore al mondo. Si tratta di quasi 3000 ricercatori. Come giustamente sottolineato dagli autori, è significativo confrontare questo valore con il numero di ricercatori assunti con posizioni equivalenti in Italia, che è stato pari nel medesimo periodo a 7384 unità. Il confronto dà chiaramente il senso di quanto il sistema universitario statunitense si appropri degli investimenti pubblici italiani nella formazione più avanzata. 

Il secondo risultato, il più rilevante per l’argomentazione degli autori, riguarda il prestigio dei dipartimenti universitari statunitensi che hanno assunto i docenti formati in Italia. La Porta e Zapperi hanno rilevato che il 35% dei docenti formati nelle università italiane è stato assunto dai dipartimenti di maggior prestigio1. È importante notare come questa percentuale sia non di rado superiore a quella ottenuta da università statunitensi che, nei principali ranking internazionali, sono in posizione equivalente alle università italiane, a testimoniare una tendenziale sottovalutazione delle università italiane in queste classifiche. 

Per derivare alcune implicazioni ulteriori di questi risultati, è utile riferirsi all’analisi contenuta nella “Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia” curata dal CNR, ed in particolare nel capitolo dedicato alla valutazione del dottorato di ricerca in ltalia. Da questa analisi si evince come, pur producendo un numero di dottori di ricerca inferiore a quasi tutti i paesi OCSE, l’Italia presenta un surplus di dottori di ricerca rispetto alle opportunità che il paese è in grado di garantire loro, misurate dalla percentuale di ricercatori sulla popolazione in età lavorativa. In particolare, è il sistema privato, presumibilmente in ragione della specializzazione produttiva italiana in settori a bassa intensità tecnologica, ad assorbire dottori in ricerca in misura molto minore agli altri paesi più sviluppati. È quindi naturale che questo eccesso di offerta cerchi all’estero le opportunità che non trova in Italia. Sia i dati descritti nella Relazione, che riprendono l’indagine Istat sull’inserimento professionale dei dottori di ricerca in Italia, che quelli riportati da La Porta e Zapperi identificano nelle discipline STEM quelle in cui la fuga dei cervelli appare più significativa.

Resta un’ultima domanda che è possibile porsi: chi sono i dottori di ricerca che lasciano l’Italia per gli Stati Uniti? I dati di La Porta e Zapperi non consentono di rispondere a questa domanda. Tuttavia, in un altro lavoro recente, Cattaneo, Malighetti e Paleari, limitatamente ai dottori di ricerca in ambito economico-finanziario, mostrano come coloro che hanno maggiori probabilità di trasferirsi all’estero (non solo negli Stati Uniti quindi) sono i migliori e i peggiori in termini di performance di ricerca prima della migrazione. I primi si rivolgono a università straniere in cerca di carriere più prestigiose (e redditizie), mentre i secondi trovano occupazione in istituzioni non orientate alla ricerca. 

In conclusione, il sistema universitario italiano sembra in grado di produrre un’offerta di dottori di ricerca di qualità, con un capitale umano adeguato sia alla ricerca accademica di frontiera che all’esigenze del settore privato. Per l’Italia, il problema sembra invece risiedere dal lato della domanda: in un settore pubblico, in particolare universitario, che fatica ad offrire condizioni competitive ai neo-dottori, anche dal punto di vista economico; ed un settore privato che, nel suo complesso, appare avere poco bisogno delle competenze dei dottori di ricerca, soprattutto nelle discipline scientifiche ed ingegneristiche. 

1  Si tratta del 25 per cento di università più prestigiose, secondo l’indice di prestigio calcolato da Wapman e coautori [Wapman, K. H., Zhang, S., Clauset, A., & Larremore, D. B. Nature, 610(7930), 120-127 (2022)].

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